Quelle gran signore delle Olivetti

 



Tac, tac, un rumore cadenzato quasi ipnotico quello delle vecchie macchine da scrivere, per chi ha la fortuna di ricordarlo; riempiva lo spazio e, quando si era in una stanza con più mani che battevano all’unisono sulle tastiere, si aveva l’impressione di marciare al passo in assetto da gran parata. Ritmato, con precisione svizzera, dal “tin” trillante del campanello di fine corsa che ti avvisava che eri al capolinea, era giunta l’ora di andare a capo, altra riga, altra corsa, altro giro.

Una melodia che, per andare a ripescare negli annali storici della tv dei bei tempi andati, riporta, almeno noi un po' antiquati, alla mitica gag del comico americano Jerry Lewis che faceva il verso alle serie ed impostate dattilografe trasformando la macchina da scrivere in una tastiera immaginaria da suonare (per chi non lo conoscesse https://www.youtube.com/watch?v=EX1nfpaF4O8 e https://www.70-80.it/1963-jerry-lewis-perenne-imbranato-suona-su-una-macchina-da-scrivere-invisibile-la-scena-diventa-la-piu-famosa-della-sua-carriera/ ). Uno straordinario pezzo comico, quanto meno per noi che abbiamo ancora fatto dattilografia a scuola e ci siamo sentiti un po' come lui al primo contatto con “lo strumento”: buffi ed imbranati pianisti della scrittura.

Un pianoforte scribacchino con i tasti che si abbassavano alzando il martelletto che, se schiacciato a sufficienza, imprimeva forte il suo bel carattere, rigorosamente nero, più raro blu e rosso solo in via eccezionale per una parola di importanza solenne. Se, invece, il tasto veniva sfiorato, con una pressione delle dita meno decisa, il martelletto, beffardo, lasciava un’esile e pallida traccia sul foglio che necessitava il ritorno sui propri passi (con il famigerato tasto del ritorno) per ribattere la lettera, con il rischio di fare un bel pasticcio!

E che dire poi, quando, spesso e volentieri, i martelletti, le sottili astine che avevano nella testa in rilievo i gruppi di caratteri, decidevano che il tuo ritmo di battuta era troppo veloce per il loro gusto... nel bel mezzo del lavoro si mettevano in sciopero, d’un colpo si alzavano in gruppo e oplà si incastravano impenitenti in aria formando una bella piramide che ti costringeva allo stop. Dovevi per forza disincastrarli e rimettere il carrello in posizione cercando di evitare spiacevoli sorprese!

L’errore non era consentito, quando capitava era un guaio, bisognava tornare indietro, provare a cancellare, con la gomma era una battaglia persa, ribattere sulla lettera errata con la barretta non era elegante e nemmeno il correttore garantiva un ottimo risultato, richiedeva una certa abilità e buona dose di fortuna. Un allenamento di resilienza, pazienza e grande perizia che costringeva all’attenzione vigilie e costante (ma non riusciva sempre, almeno a noi studenti, tendenti a non amare troppo gli esercizi didattici ripetitivi).

C’erano poi i nastri da tenere sott’occhio, si giravano e rigiravano le bobine per consumarli “sino all’impossibile ed oltre”, sebbene le macchie fossero garantite ed il colore potesse virare in sfumature rosso-blunerastre che conferivano un tocco alternativo allo scritto nel corso dei vari “gira e rigira il nastro per evitare sprechi”.

Come se già non fosse complesso il lavorare con le macchine da scrivere, si aggiungeva il doversi giostrare con le dannate righe dei fogli a protocollo (imprescindibili nei documenti notarili e giudiziari), chissà come mai le scritte non sembravano aver mai voglia di seguire docili la linea diritta della riga, erano più inclini a preferire andamenti ondeggianti poco istituzionali. Ancora più subdola era la carta a carbone, utilizzata per produrre più copie da una matrice unica; quella dannata macchiava “alla grande” se era un pochino consumata, amava disegnare artistiche screziature sfumate inopportune se, per “puro” caso, era leggermente spiegazzata o non ben inserita fra foglio e foglio e rullo, o, peggio ancora, quando, sopra pensiero, sfoderavi la grande astuzia di posizionarla al contrario… la copia si fissava sorniona sul retro dello stesso foglio costringendoti a rifare tutto.

In più, a tastiera cieca (senza guardare mai i tasti), con le dieci dita posizionate correttamente sui tasti, sotto dettatura se la giornata era sbagliata… il disastro era assicurato e il lavoro da rifare n. volte.

Pesanti come un armadio, solide come rocce (ad esperienza la mia Olivetti Lettera 35 manuale e quella, poi successiva, elettrica, sempre Olivetti, sono cascate un paio di volte dalla scrivania ma non hanno subito danni, semmai forse il pavimento…) sono meravigliosi strumenti che raccontano un mondo che oggi sembra lontano anni luce ma, in realtà, è poco distante da noi.

Una magia ogni volta che i più grandi la rivedono, in bella mostra nella nostra scrivania dell’ufficio di Casa Mino, perché rievoca mille ricordi; una scoperta straordinaria per i più piccoli che rimangono a bocca aperta quando scoprono che è la nonna, meravigliosa ed elegante gran signora italiana, delle tastiere, dozzinali e banalotte, dei loro pc.

Loro, le nostre Olivetti, vi aspettano per scrivere insieme una pagina a Casa Mino.


Per approfondire

http://wwwcdf.pd.infn.it/AppuntiLinux/introduzione_alla_tastiera.htm

https://it.wikipedia.org/wiki/Olivetti_M1

https://buonoedeconomico.it/opinioni/la-miglior-macchina-da-scrivere/

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